La Madonna, seduta al centro su un trono marmoreo, sorregge il figlio Gesù che la abbraccia teneramente. A sinistra riconosciamo un santo vescovo, forse San Maglorio, e San Giovanni Battista che indossa la tipica casacca in pelle di cammello e mostra il cartiglio con la scritta in latino “ECCE AGNUS DEI”. Sull’altro lato del trono, all’estrema destra è San Girolamo in veste cardinalizia, affiancato dal leone che, secondo la leggenda, egli avrebbe addomesticato. Il libro che mostra è la Vulgata, la traduzione in latino della Bibbia da lui pazientemente compiuta. Al suo fianco, San Giovanni Evangelista è identificabile dal Vangelo e dalla penna usata per scriverlo. Ai piedi del trono, in ginocchio, sono raffigurati due santi che, dalle loro vesti, si possono riconoscere come appartenenti all’ordine camaldolese. La base del trono presenta incisa, a caratteri dorati, la scritta in latino “AVE MARIA GRATIA PLENA”, ovvero le parole pronunciate dall’Arcangelo Gabriele al momento dell’Annunciazione. Dietro la Vergine due angeli reggono le cortine di un tendaggio dorato, che funge da sfondo alla scena.
Non è noto il luogo di provenienza della Pala, giunta in Pinacoteca con le soppressioni napoleoniche. La presenza dei due santi in primo piano farebbe pensare a una committenza camaldolese. Tre erano i monasteri faentini appartenenti a questo ordine: quello di San Giovanni Battista, quello di San Maglorio e quello della Santissima Trinità. Data la presenza nel dipinto di San Giovanni Battista, Roberta Bartoli (1999) ha cautamente proposto una provenienza dal primo luogo.
L’opera, databile verso la fine del Quattrocento secondo gli studi più recenti (Bartoli 1999; Tambini 2009), presenta un tono solenne e grave. Ciò lo si deve soprattutto, oltre alle pose statiche dei personaggi, all’utilizzo del fondo oro: una scelta a quelle date ormai antiquata e che si deve certamente a una severa e pia committenza. Al tempo stesso, tale particolarità ben rispecchia il contesto culturale in cui nacque l’opera. Verso la fine del secolo, infatti, si diffuse nel centro e nel nord Italia un particolare fermento religioso, che predicava un ritorno all’austero cattolicesimo delle origini, in polemica con i fasti e la corruzione della corte papale. Biagio d’Antonio, come altri artisti suoi contemporanei, non fu certo immune a questo mutamento di clima e a Firenze fu sicuramente colpito dalle accese prediche del frate domenicano Girolamo Savonarola. La Pala di Faenza con il suo fondo oro voleva perciò richiamare, volutamente, le icone medievali e suscitare nel fedele un profondo sentimento religioso. Altri elementi che richiamano la pittura del passato sono la rappresentazione dei volti di profilo e uno scarso interesse generale per la resa della profondità. Gli stessi angeli reggi cortina alle spalle della Vergine sono una citazione di una celeberrima opera di metà Quattrocento: La Madonna del Parto di Piero della Francesca, a Monterchi.
A partire da Federico Argnani (1881), primo direttore della Pinacoteca faentina, la critica ottocentesca ha attribuito la pala a Giovanni Battista Utili, artista faentino del Quattrocento (poi identificato con Giovanni Battista Bertucci) il cui nome spesso ricorreva nelle carte d’archivio locali. Tale errore di attribuzione si mantenne anche nella letteratura artistica di inizio Novecento, con l’eccezione di Geza De Francovich (1925-1926) che inserì il dipinto nel catalogo di Benedetto Ghirlandaio. Nel 1938, a seguito delle importanti ricerche archivistiche di Carlo Grigioni (1935), Roberto Longhi e Luisa Becherucci riferirono correttamente l’opera al fiorentino Biagio d’Antonio.