Nei due pannelli più piccoli, in un interno classicheggiante dalle pareti verdi e abbellito da un fregio dorato, sono raffigurati a mezzobusto un santo vescovo, variamente interpretato dalla critica come Sant’Agostino (Grigioni 1956) o Sant’Ambrogio (Casadei 1991, Viroli 1991), e San Girolamo. Questi, riconoscibile grazie alla veste rossa cardinalizia, è intento a leggere un libro: è la Vulgata, la versione della Bibbia tradotta in latino dal santo.
Nei due pannelli più grandi, in un ricco interno contraddistinto da colonne in marmi colorati e pilastri decorati con fregi a grottesche su fondo oro, sono presenti da una parte Sant’Agostino, con i paramenti vescovili sulla tonaca nera (un’allusione, quest’ultima, all’ordine agostiniano, fondato sulla Regola di Sant’Agostino) e dall’altra il giovane Tobia (o Tobiolo) con l’Arcangelo Raffaele. Nel Libro di Tobia, contenuto nella Bibbia cristiana, si racconta che durante l’esilio degli ebrei in Assiria, Tobi, uomo pio, diventato cieco e sentendosi prossimo alla morte, inviò il figlio Tobia a riscuotere del denaro in Media. Dopo aver trovato un compagno, Tobia intraprese il viaggio ma, giunti al fiume Tigri, venne attaccato da un grosso pesce. Su consiglio del compagno, il giovane non si fece spaventare: catturò l’animale, l’uccise e ne estrasse il cuore, il fegato e il fiele. Giunti a destinazione e recuperato il denaro, i due si incamminarono quindi verso casa. Seguendo sempre le indicazioni dell’altro, Tobia usò i primi due elementi estratti dal pesce per liberare da un demone una giovane donna di nome Sara, che divenne sua sposa, mentre col fiele guarì la cecità del padre Tobi. Solo alla fine di queste peripezie il misterioso compagno rivelò la sua vera natura: era l’Arcangelo Raffaele. Non è raro nei dipinti del Rinascimento che Tobia venga raffigurato come un bambino piccolo. L’arcangelo Raffaele nella devozione popolare era infatti diventato per antonomasia “l’Angelo custode”, ovvero l’intermediario di Dio che accompagna e guida gli uomini, fin dalla loro tenera età, attraverso le avversità della vita.
Nel 1777 i quattro pannelli furono visti nella sagrestia della chiesa faentina di Sant’Agostino dall’erudito bolognese Marcello Oretti, che nel suo manoscritto Pitture nella città di Faenza non esitò ad attribuirli a Marco Palmezzano (in Casadei 1991, p. 46), attribuzione che è stata poi unanimemente accettata dalla critica successiva.
Ciò che invece ha creato un vivace dibattito fra gli studiosi è la possibilità o meno che le due coppie di pannelli facessero parte di uno stesso complesso decorativo, data la comune provenienza. Non essendo noto un documento di committenza o notizie storiche antecedenti al 1777, la questione è tuttora aperta. Per Anna Tambini (2005), seguendo l’opinione di Grigioni (1956), è impensabile che tutti e quattro gli elementi siano i frammenti di una stessa tavola: gli sfondi delle due coppie risultano diversi e difficilmente compatibili e i due santi vescovi, dall’aspetto molto simile e senza ulteriori attributi identificativi, avrebbero creato facilmente confusione nell’osservatore. Anche qualora il Santo Vescovo del riquadro quadrangolare fosse Sant’Ambrogio, per la studiosa sarebbe difficile spiegare l’assenza del quarto dottore della Chiesa, San Gregorio Magno, che difficilmente poteva figurare al centro. Tambini, perciò, ipotizza cautamente la provenienza dei due pannelli minori dalla chiesa di San Girolamo dell’Osservanza, dove nel 1505 Palmezzano è documentato nella realizzazione di una pala. In questo caso presenza di San Girolamo sarebbe giustificata in quanto titolare della chiesa, mentre il santo vescovo potrebbe essere identificato come Sant’Agostino. Quest’ultimo dettaglio spiegherebbe l’ipotetico passaggio dei due pannelli, probabili frammenti di una pala, dalla chiesa di San Girolamo a quella di Sant’Agostino, forse avvenuto durante alcune ristrutturazioni settecentesche.
Di tutt’altro avviso è Anna Colombi Ferretti (2015), che invece ritiene altamente credibile l’ipotesi, risalente alla fine dell’Ottocento (Calzini 1894), della provenienza delle quattro tavole da uno stesso altare agostiniano. Per la ricostruzione del complesso la studiosa ipotizza che al centro vi potesse essere sia una tavola raffigurante la Madonna col Bambino (in un polittico simile a quello realizzato nel 1505 da Lorenzo Costa per la chiesa faentina di San Pietro in Vincoli, oggi conservato alla National Gallery di Londra, inv. NG629.1-NG629.5) sia un’immagine di diversa natura, forse realizzata ad affresco o scolpita. A certificare la provenienza da una stessa pala vi sarebbero poi, sempre secondo Colombi Ferretti, i risultati diagnostici eseguiti sui quattro dipinti nel 2005, i quali avrebbero confermato la comune essenza lignea dei supporti, con le stesse venature del legno (Tambini dimostra di essere a conoscenza di tali risultati, ma solo per le due tavole minori).
La stessa datazione dei quattro dipinti ha generato opinioni differenti: negli studi più recenti la Tambini (2005) propende per una cronologia prossima al 1505, mentre la Colombi Ferretti (2015) preferisce collocarli in un momento più tardo, attorno al 1520.
Stilisticamente le tavole, contraddistinte dall’uso di luci calde e soffuse e di toni brillanti, mostrano la forte influenza esercitata dalla pittura veneta su Marco Palmezzano, specialmente dopo il documentato soggiorno in laguna del 1495.