La Vergine Maria, seduta su un ricco trono marmoreo, tiene le mani giunte in preghiera. Sulle sue ginocchia è appoggiato il piccolo Gesù, che si sporge per offrire una lunga e sottile croce al santo alla sua destra, San Giovanni Evangelista, riconoscibile grazie alla presenza ai suoi piedi dell’aquila, suo simbolo nel Tetramorfo. A sinistra del trono, vestito con un saio francescano, si trova Sant’Antonio da Padova, che rivolge in alto uno sguardo devoto, mentre tiene in mano un libro e un giglio, emblema di purezza. Alla base del trono, entro un clipeo retto da due putti, vi è la scritta “IHS”, il monogramma che richiama il nome di Gesù Cristo e che nell’ordine francescano conobbe una particolare diffusione grazie a San Bernardino da Siena, il quale durante le sue prediche esponeva alla venerazione dei fedeli uno scudo circolare con queste stesse lettere.
La pala venne commissionata nel 1504 dalla vedova Antonia Bazzolini per la cappella di famiglia nella chiesa di San Francesco a Faenza. Al nome della committente allude la presenza di Sant’Antonio da Padova, al quale la donna doveva essere particolarmente devota. Dal contratto si viene a sapere che al di sopra della Pala doveva esserci anche un’Annunciazione, che tuttavia nei secoli è andata persa.
Il dipinto è un chiaro esempio dello stile tardo del fiorentino Biagio d’Antonio Tucci, che appena varcato il secolo dimostra di non riuscire a stare totalmente al passo con le novità pittoriche di derivazione veneta e centro-italiana che in quegli anni si stavano diffondendo in Emilia e in Romagna. I personaggi appaiono alquanto statici e piatti e per la loro costruzione sono stati riutilizzati cartoni di opere precedenti. Vi sono comunque, come notato dalla critica più recente (Bartoli 1999, Tambini 2009), alcuni timidi tentativi di aggiornamento: nel delineare i visi il pittore sembra guardare alla coeva pittura bolognese (Francesco Francia e Lorenzo Costa soprattutto) e nella cartella dorata presente alla base del trono, abbellita con grottesche, vi è una citazione dei motivi decorativi di origine centro italica che Marco Palmezzano andava diffondendo, con successo, in Romagna.
Nell’Ottocento, presso la critica locale, si era totalmente persa la conoscenza dell’autografia della Pala, nel frattempo entrata nelle raccolte d’arte comunali. Federico Argnani (1881), primo direttore della Pinacoteca, la attribuì a Bernardino Zaganelli o a Girolamo Marchesi da Cotignola. Antonio Messeri e Achille Calzi (1909) la considerarono un’opera di Giovanni Battista Utili, artista faentino del Quattrocento (poi identificato con Giovanni Battista Bertucci) il cui nome spesso ricorreva nelle carte d’archivio locali. La loro ipotesi conobbe un discreto successo nella letteratura fino a quando Carlo Grigioni (1935), dopo aver riesaminato diversi documenti faentini del Rinascimento, non propose di riferire la pala e altre opere stilisticamente affini, a quel tempo date all’Utili, al fiorentino Biagio d’Antonio. In quella stessa occasione, fra le carte d’archivio pubblicate per la prima volta da Grigioni vi era anche la commissione della pala Bazzolini: lo studioso, tuttavia, non riuscì a identificare il dipinto in esame con quello citato dal documento. Ciò fu dovuto anche al fatto che al tempo la Pala appariva con pesanti ridipinture settecentesche che, forse per ragioni di devozione, avevano totalmente cambiato l’identità dei santi (trasformati in San Bonaventura e San Bernardino da Siena). Fu Antonio Corbara, nel 1947, a notare per primo l’alterazione del dipinto: lo studioso ipotizzò cautamente che sotto il camuffamento si celasse la pala Bazzolini citata dal documento pubblicato da Grigioni. Le sue ipotesi troveranno conferma nel 1949, quando dopo un restauro fu restituito al dipinto l’aspetto originario.