Giuseppe Tampieri a Lugo

Come piccola antologia | Donazione Giuseppe Tampieri a Lugo

[su_heading size=”18″ margin=”15″]DONAZIONE GIUSEPPE TAMPIERI A LUGO
17 marzo – 8 aprile 2018

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Come piccola antologia
La ‘Donazione Tampieri’ nel contesto del patrimonio artistico lughese del ‘900
Orlando Piraccini, Daniele Serafini

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Catalogo Giuseppe Tampieri a Lugo
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Giuseppe Tampieri foto
Giuseppe Tampieri

Cresciuto e artisticamente formatosi a Faenza, Giuseppe Tampieri non è stato direttamente coinvolto nel fervido clima figurativo che ha interessato la sua città natale tra le due guerre, e a tratti anche la seconda metà del secolo scorso.

Tuttavia, alla vicenda artistica lughese conviene far cenno nel momento in cui l’opera di Tampieri viene ad integrare il notevole patrimonio che si è col tempo accumulato a Lugo, e che è oggi in larga parte visibile ai visitatori nella sua dimensione di ‘museo diffuso’ all’interno dei diversi edifici pubblici cittadini, dalla Rocca al Carmine, alla Biblioteca Trisi.

Si tratta di un patrimonio nella cui formazione è possibile indicare una linea di demarcazione, un ante e un post, da cui muovere per una riflessione organica sulla composizione delle raccolte. Tale linea è senza dubbio individuabile nel movimento futurista, vivace a Lugo come in pochi altri luoghi in Italia.

Francesco Balilla Pratella, invece, allievo di Mascagni, compositore e musicologo, ma anche etnografo e studioso di canti romagnoli, non fu solamente l’esponente più autorevole del futurismo musicale italiano assieme a Luigi Russolo, ma anche il punto di riferimento, a partire dal 1911, di una generazione di pittori, musicisti e letterati che frequentarono il suo cenacolo, quella “Villa Pratella” ubicata nell’attuale via Provinciale Felisio, vicino alla ferrovia.

Tra i personaggi da ricordare si va da Giorgio Morandi e Osvaldo Licini, studenti dell’Accademia insieme al lughese Giacomo Vespignani, al giovane Filippo De Pisis; dallo scrittore Riccardo Bacchelli allo scultore Domenico Rambelli; dal pittore Roberto Sella, cui si deve la Cappella Sepolcrale dell’Asso dell’aviazione italiana, a Nino Pasi, autore delle decorazioni dell’attuale Museo Baracca; dal faentino Giannetto Malmerendi al ravennate Arnaldo Ginna; dal pittore Esodo Pratelli a Virgilio Ricci, in parte rappresentati nella sezione della pinacoteca ‘diffusa’ collocata nella Casa municipale.

Dalla Scuola di Domenico Visani, fucina di molti artisti locali, presente con un autoritratto nelle Sale della Rocca estense, si passa a Roberto Sella e a Orazio Toschi, che segnarono la vicenda artistica non solo di questo territorio. Poi incontriamo Lucio Benini, autore delle decorazioni della Sala Baracca nella Rocca estense e di opere di impronta divisionista; Roberto Sella, che dopo una fase iniziale nella quale fu vicino ai canoni del Divisionismo, si avvicinò al movimento futurista con alcune opere di forte impatto dinamico e cromatico, prima di approdare a una pittura di stampo novecentista; Orazio Toschi, che dopo una breve adesione al Futurismo, scrisse nel 1921 il saggio Pittura lirica, dove teorizzava un’arte vicina al Realismo Magico, che divenne la sua cifra artistica, densa di suggestioni simboliche e poetiche con richiami non sottaciuti ai preraffaelliti; Esodo Pratelli con due pregevoli opere di atmosfera Liberty. Per tacere di Ermanno Toschi, presente nel Salone estense con “I Vogatori”, un grande dipinto del 1939 di marca novecentista.

Del Cenacolo di Pratella, prima rievocato, qui si segnala anche l’opera di Giacomo Vespignani (1891-1941), presente nella celebre mostra all’Hotel Baglioni di Bologna del 1914, poi, con ceramiche e dipinti futuristi, alla mostra lughese del 1917 e, successivamente, protagonista in importanti esposizioni futuriste a Milano, Genova, Firenze e alle Biennali veneziane del ‘24 e del ‘26.

Nel corso del Novecento, in questo territorio, si sono dunque consumate esperienze non secondarie rispetto agli andamenti della vicenda figurativa romagnola e, in certi casi, anche nazionale. Un ruolo non trascurabile lo esercitò, poi, la presenza di Mattia Moreni, attivo negli anni Cinquanta e Sessanta a San Giacomo (Russi), poi a Brisighella e a Santa Sofia, ma con un forte radicamento a Lugo, dove aveva sposato Miriam Falchi Cavallini. Echi della sua pittura si trovano in alcune fasi del lavoro di artisti quali Claudio Neri, tra tradizione e modernità, sensibile interprete dell’arcangeliana poetica ultimo-naturalista, e Primo Costa, neoromantico pittore del silenzio.

giuseppe tampieri antologiaNella suggestiva cornice della ‘Manicalunga’ all’interno del Carmine e all’ultimo piano delle Biblioteca Trisi, il Novecento dei maggiori artisti lughesi s’incrocia con quello di altri noti pittori romagnoli di prima e seconda generazione. È un percorso ricco di spunti d’interesse quello che comincia da Luigi Varoli, estroso ‘maestro’ di buona pittura per altri artisti d’area ravennate, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale; che prosegue con Avveduti, dotato di una sensibilità particolare per le nature morte e i paesaggi, e che si distinse anche per un’intensa e decennale attività di ritrattista. Un itinerario che fa scoprire poi artisti che hanno proseguito nella tradizione naturalistica ottocentesca, come Felice Baroni; fino a concludersi con autori come Montevecchi, Micela, Neri, Ruffini, Piraccini, Sartelli, Liverani, Dosi, Spazzoli, Ponti, che sono stati protagonisti di coraggiose e personali ‘rotture’ dello schema dialettico a lungo dominante fra figurazione ed astrazione.

Ecco dunque che la ‘piccola antologia’ di opere di Giuseppe Tampieri, grazie alla donazione della figlia Barbara, viene così a colmare un vuoto nella ‘panoramica novecentesca’ offerta dal patrimonio figurativo lughese. Non senza ricordare, in ogni caso, che al pubblico della propria città natale il maestro Tampieri aveva inteso presentarsi più volte nel corso della propria carriera: nel 1963, e dunque durante il suo periodo di vita e di lavoro a Genova, con una mostra all’Auditorium e, nel 1973 e 1977, con ‘personali’ alla Galleria ‘La Bottega’.

Da oggi, dunque, grazie all’odierna donazione l’esile filo che ha fin qui unito Giuseppe Tampieri alla comunità lughese si fa più tenace ed è specialmente destinato a durare nel tempo. La raccolta delle opere che viene ad aggregarsi al patrimonio cittadino è certamente interessante e si presenta come una ‘piccola antologia’ dell’arte tampierana. Che segue, e si potrebbe dire raddoppia, quella offerta al pubblico dalla donazione voluta dallo stesso artista quindici anni or sono a favore della civica pinacoteca di Faenza.

I due nuclei, visti singolarmente, ma meglio ancora se accostati, consentono, infatti, una rappresentazione esauriente del percorso creativo dell’artista.

In primo luogo, come a Faenza, anche nella ‘donazione’ per Lugo si ritrovano tracce significative del ‘primo Tampieri’, cioè del giovane artista i cui esordi furono, si deve ricordarlo, nel campo della scultura. I tre gessi patinati che qui figurano rimandano al corso d’opera degli anni ’40. E se la piccola figurina circense va vista come un addio alla stagione fiorentina ed alla esperienza scolastica all’Istituto d’Arte di Porta Romana, il ritratto della contessa Cavina rientra nel pieno della fervida attività svolta da Tampieri subito dopo il ritorno nella città d’elezione. In quanto alla ‘testina’ suggestivamente primitiva, risalta la data d’esecuzione, ovvero quel 1948 che fu l’anno della partecipazione dell’artista alla XXIV Biennale veneziana e della sua consacrazione tra i maggiori scultori italiani del momento.

Quanto basta, dunque, per cogliere i tratti salienti dello stile di Tampieri scultore, così come si è manifestato dopo il periodo trascorso a Firenze e con l’esaurirsi della lezione andreottiana filtrata negli anni di studio dalla maniera dell’Innocenti, successore e seguace del celebre maestro. Qui vi sono indicatori precisi di un’autonomia di linguaggio riconducibile ai precoci interessi di Tampieri per i modelli classici e preclassici e al confronto a distanza con la grande plastica europea. Un traguardo, in tal senso, può essere considerata la grande figura lignea d’acrobata presentata con successo a Venezia nel ’48 (e anch’essa donata dall’artista a Faenza) con la sua postura antica e l’equilibrata e sensuale saldezza delle femminee masse corporee, non a caso ‘patrocinata’ in occasione della biennale da un maestro di valori plastici come Marino Marini.

Giuseppe Tampieri, I tre ponti a Comacchio, 1955
Giuseppe Tampieri, I tre ponti a Comacchio, 1955

Venendo alla più corposa componente pittorica della donazione lughese, osserviamo che il più ‘antico’ dipinto risale al 1955. Vi si vede il caratteristico scorcio di Comacchio coi suoi tre ponti, significativamente mosso da presenze umane. Cronologicamente l’opera si distanzia non di molto dai primi esercizi in pittura del giovane romagnolo; ma si distingue da quegli studi sul paesaggio toscano resi a pennellate larghe e decise, cromaticamente accesi e densi di colore, così pure si distanzia da certi scorci romagnoli dipinti dopo il ritorno a Faenza nel 1941, di resa naturalistica e in alcuni casi influenzati dalla poetica morandiana. Domina il paesaggio comacchiese un gradevole ed attraente effetto di chiarismo, a sua volta distante dalle atmosfere cupe di reminiscenza goyesca delle rappresentazioni d’interno risalenti al periodo bellico. Mentre, invece, torna il colore ad accendersi nei tre paesaggi spagnoli della raccolta: nei pittoreschi ruderi di Loarre, che risalgono al terzo soggiorno di Tampieri in terra iberica nel 1959, e specialmente nell’aragonese montagna tutta d’ocra di Calatayud del ’68.

Nella serie paesaggistica della raccolta lughese figurano anche due paesaggi ‘tardi’ (2000 e 2001), dipinti con leggerezza d’animo e di mano dall’ ‘artista viaggiatore’, cultore delle italiche bellezze naturali e monumentali. Le atmosferiche visioni sono della fiorentina villa di Bellosguardo e delle fortificazioni di Alghero.

Giuseppe Tampieri, Lo specchio, 1963
Giuseppe Tampieri, Lo specchio, 1963

Ben più largamente rappresentata nella raccolta lughese risulta la figura femminile, soggetto che è generalmente considerato dominante della pittura tampierana: si va qui dalla sensuale coppia ‘allo specchio’ del 1963 fino alle ‘donne andaluse’, rimembrate dall’artista nel 2006. Ma il nucleo più interessante è costituito dagli ‘interni’ eseguiti durante il periodo di vita e di lavoro a Genova, a partire dal 1950 ai primi anni ’80. Alcuni appartengono al ciclo tematico identificabile come ‘il pittore con la modella’, nel quale la presenza della figura maschile sembra funzionale unicamente ad esaltare la bellezza femminile.

E a proposito di ‘senso del bello’, conviene a questo punto accennare anche alla serie grafica compresa nell’odierna donazione, con alcuni fogli di ‘nudi’ nei quali s’evidenzia il ben noto talentuoso segno, mai però fine a se stesso e «non soltanto approssimativo collaudo di idee», per dirla con lo stesso Tampieri; secondo il quale proprio «un assiduo rapporto con il disegno consente all’artista di esprimersi più liberamente e di abbandonarsi agli estri della fantasia e dell’invenzione».

Giuseppe Tampieri, Tavolo di cucina
Giuseppe Tampieri, Tavolo di cucina

Una segnalazione particolare merita, infine, la presenza di due ‘nature morte’ pure risalenti all’ultimo periodo di lavoro dell’artista. Sono opere per qualche verso speciali, perché documentano una ripresa d’entusiasmo da parte dell’artista per una pittura di genere che era stata praticata solo agli esordi e poi abbandonata. Ai dipinti, esposti nella mostra monografica I mangiari dipinti da me curata a Forlimpopoli nell’autunno del 2008, ben s’accompagna, credo, la testimonianza dello stesso Tampieri a proposito del fatto che «più mi immedesimavo nel proposito di prolungare un’esperienza che mi aveva affascinato in gioventù, più mi sentivo libero di abbandonarmi agli estri dell’improvvisazione, senza l’assillo di dimostrare un mio stile personale e senza la preoccupazione di cercare la verosimiglianza assoluta delle cose che rappresentavo, ma piuttosto di affidarmi alla memoria visiva. Così facendo, come in un ideale viaggio sentimentale nel passato, mi sono trovato più vicino alle maniere di taluni miei prediletti Maestri, ricavandone preziosi insegnamenti».

Sono colori e parole di verità, e così queste composizioni ci appaiono tra le più sentite ‘prove’ di un pittore fino all’ultimo disposto a credere che «non può morire mai l’arte che alla natura si ispira».

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