MONUMENTALE
Disegni e scultura nell’arte di Domenico Rambelli
7 dicembre 2013 – 1 maggio 2014
Il genio di Domenico Rambelli e le sue opere monumentali
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- Presentazione
- Le ragioni di una mostra. Articolo di Claudio Casadio, direttore della Pinacoteca Comunale di Faenza
- Il genio di Rambelli e le sue opere monumentali. Articolo di Antonio Paolucci, direttore dei musei vaticani
- Riflessione su alcuni inediti. Articolo di Claudia Casali, direttore del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza
- Biografia di Domenico Rambelli, di Stefano Dirani
- Opere in mostra
- I monumenti di Rambelli. Itinerario nelle opere all’aperto realizzate dall’artista
- Foto della sala di mostra
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Il genio di Domenico Rambelli è quello della caricatura. Egli vede il mondo come riflesso in uno specchio deformante; uno specchio che ora dilata ora restringe le figure così da far emergere la vena di ordinaria e visionaria follia che è presente nei volti e nei corpi dei nostri simili ed occupa, per estensione e per contaminazione, le loro opere e i loro giorni.
Come un ferrarese del Quattrocento – come il Cossa di Schifanoia, per esempio – Rambelli pensa che l’anamorfosi sia lo strumento migliore per dare immagine e significato al Vero.
Un atteggiamento siffatto presuppone una certa dose di umorale pessimismo e di trasgressivo anarchismo, l’uno e l’altro caratteri distintivi dell’artista faentino e, più in generale, dati identitari dell’”etnos” romagnolo.
Un artista come Rambelli poteva essere affascinato dalle tendenze mitteleuropee simboliste ed espressioniste di Barlach e di Kollowitz, dallo spiritualismo di Costetti, dalla solitaria testimonianza di Lorenzo Viani, dal levigato splendore misteriosofico di Wildt, ma il fondo pragmaticamente terrestre del suo naturalismo basico, la sua “romagnolità”, potremmo dire, lo hanno salvato da derive intellettualizzanti che lo avrebbero portato verso l’evanescenza e l’insignificanza.
Rambelli rimane saldamente vero pur nella sua percezione anamorfica e dunque caricaturale e surreale del Vero. Rimane tale anche quando incrocia i valori estetici dominanti negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo. Perché questo è il punto.
Cosa accade a Rambelli quando assume e fa propria la cultura dei “Valori Plastici”, quando vuole confrontarsi, come tutti in quegli anni, con i recuperi arcaizzanti di Carrà e di Arturo Martini, con il muralismo eroico di Sironi, ma anche con le mitografie patriottiche e nazionaliste suggerite quando non imposte al Fascismo? È questo, per lo storico dell’arte, l’aspetto più intrigante e più affascinante del suo percorso stilistico.
Il credo che il meglio di Rambelli vada individuato nelle sue opere monumentali, nei “Caduti di Viareggio”, nel “Fante che dorme” di Brisighella, nel “Francesco Baracca” di Lugo di Romagna; quest’ultimo voluto da Mussolini e solennemente inaugurato il 21 Giugno del ’36 alla presenza delle massime autorità dell’Esercito e del Regime con annessa manifestazione dell’aviazione militare.
Lo scultore faentino ebbe i suoi momenti di gloria. Non gli mancarono gli apprezzamenti di Bontempelli e della Sarfatti, non lo abbandonò mai l’amicizia di Carrà, nelle riviste d’arte e nei cataloghi di mostre di quegli anni il suo nome figura con onore quando non con ammirazione.
Eppure la sua non fu mai arte di regime. Potremmo dire che l’anarchismo e il naturalismo di base fomentato da suggestioni espressioniste e simboliste, una volta calati nei pur condivisi stereotipi ideologici del nazionalismo e del patriottismo, producono in lui un geniale ossimoro, si traducono in una specie di corto circuito. Nelle sue sculture migliori domina la linea curva, ellittica, avvolgente. I volumi si inseguono modulandosi e sovrapponendosi come onde. Così nei “Caduti di Viareggio”. Oppure è l’emergere, dalla profondità dei recuperi arcaizzanti alla Arturo Martini, del monolite chiuso, blocco compatto di infinita terrestre pazienza. Come in quel capolavoro assoluto di primaria ancestrale fisicità e insieme di sospesa trattenuta energia, che è il “Fante che dorme” di Brisighella. Di fronte a queste opere si può capire l’interesse da qualcuno ipotizzato di Henry Moore, in Italia nel 1925, per lo stile di Domenico Rambelli.
Quello che è certo è che fra le tante tendenze, accenti e varianti che popolano il Novecento italiano, la voce dello scultore faentino è tutt’altro che irrilevante. Rambelli ha rappresentato un’epoca e, almeno una volta, lo ha fatto consegnandoci un’opera esemplare, esemplare nel senso letterale della parola perché esemplifica in maniera che potremmo definire didattica, le idee e i valori di un certo momento storico.
Mi riferisco al monumento a Francesco Baracca, forse non il suo capolavoro certo però l’opera sua più emblematica. L’eroe della aviazione militare italiana, grande figura monolitica rappresentata con sintetico essenziale realismo, sta al centro della piazza di Lugo su un cilindro marmoreo percorso dalla iscrizione celebrativa. Accanto a lui è l’ala di granito fuori scala incombente a mo’ di obelisco. Ci sono tutti gli anni Trenta del Novecento in questo monumento. C’è la temperie politico-culturale dell’epoca che esalta, sotto il segno del Fascismo, il culto della Patria. C’è il mito sironiano del moderno eroe tecnico e meccanico dominatore delle macchine. C’è l’arcaismo astrattizzante di Carrà e di Arturo Martini. C’è infine la memoria delle metafisiche piazze di De Chirico in quell’ala di granito che si colloca al centro dello spazio urbano.
Antonio Paolucci
direttore Musei Vaticani
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