FRANCESCO NONNI
[su_heading size=”18″ margin=”15″]Presentazione Critica[/su_heading]
I 55 disegni esposti furono realizzati da Francesco Nonni al ritorno dal Lager di Celle dopo un anno e due mesi di prigionia. Sono stati acquistati dal Comune di Faenza nel 1961 su proposta dell’Associazione Amici dell’Arte di Faenza che aveva organizzato, nella primavera dello stesso anno, una mostra antologica di opere di Francesco Nonni.
Nei disegni di Nonni vi è rappresentata la vita quotidiana degli ufficiali italiani priogionieri nei campi di concentramento tedeschi di Rastatt e di Celle.
La scarna e spettrale geografia delle baracche e dei reticolati è la cornice entro cui si svolgono le interminabili giornate dei prigionieri. Scandite soprattutto dall’attesa dello scarso cibo.
Ci appare un’umanità ridotta alle più elementari funzioni dell’esistenza. I disegni sono stati riordinati ed esposti secondo la schema di racconto proposto da Rolando Anni e Carlo Perucchetti in “Voci e silenzi di prigionia. Cellelager 1917-1918” (Cangemi editore, Roma, 2015). I vari capitoli di questo racconto sono rispettivamente: il viaggio, l’arrivo, il campo di Celle, le baracche, la fame, la sbobba, il pane, i pacchi, l’igiene, l’appello, il controllo, la violenza, la morte, la cultura, la poesia, lo svago.
In quel campo, Nonni ebbe come compagni di prigionia alcuni letterati destinati, nei decenni successivi, a diventare figure di primo piano della cultura italiana: Ugo Betti, Carlo Emilio Gadda e Bonaventura Tecchi.
«Il Nonni espone una serie di disegni “scene di prigionia”. Sono episodi di stenti, di fame, di fatica, di morte, sentiti con commozione, sincera perché vissuta e profondamente patita. Il dolore, lo squallore, la disperazione visti con puro occhio d’esteta e resi con onesta ed efficace evidenza. In questo genere sono opere non comuni.»
Domenico Emaldi, Mostre d’arte di ex combattenti della regione Emiliano-Romagnoli, “La Piê”, 1926, a. VII, nn. 7-8, pp. 179-180.
«L’effetto prodotto da fatti quali la guerra e la prigionia sopra un temperamento quale quello del Nonni, è più facile immaginarlo che dirlo.
Noi possiamo solo dire che durante il tempo in cui da umile fantaccino dapprima e poi da ufficiale ha fatto la guerra, la sua arte ha taciuto. E solo si è manifestata di poi, quando prigioniero in terra straniera, i crampi della fame, l’umiliazione e la morte hanno sconvolta l’anima sua inspirandole alternativamente moti di rivolta, di disprezzo, di fierezza e di pietà. Dalle decomposte spoglie del dorato involucro in cui prima sembrava chiusa, facendola più luminosa e come rinnovata, per la prima volta emergere.
Effettivamente i disegni di prigionia del Nonni sono la sola cosa che ci parli del suo animo. E per questa ragione crediamo che stiano là come una cosa a sé, e quale una interruzione nella continuità artistica dello xilografo faentino.
Per noi questi disegni sono la sua sola affermazione veramente artistica. Poiché in essi la schiavitù all’edonismo della linea decorativa è negata e superata dalla drammaticità non solo dei soggetti, ma delle linee, dei colori e delle forme colle quali detti soggetti sono espressi. C’è insomma, in questi disegni di cattività, la nudità spirituale di un’anima, e la vibrazione di un cuore; mentre nelle xilografie precedenti c’è la magnificenza d’un corpo lussuosamente vestito e l’esclusiva compiacenza d’un occhio solo intento a spettacoli di gioia.»
Armando Cavalli, Francesco Nonni e la sua arte, “La Piê”, 1931, a. XII, nn.11-12, pag. 245.
«Più tardi – nei giorni di Caporetto – la prigionia. Lo chiusero nel desolato campo di Celle nell’Hannover: sofferenze indicibili. Lui, allora ufficiale come altri ufficiali come i soldati, ridotto dal dolore e dalla fame ad ombra vagante, senza una meta che non fosse la morte.
E disegnò quelle scene della prigionia, cogliendone la tragica realtà, il senso dell’orrore e lo squallore che copriva quelle figure cenciose e tutto il campo maledetto.»
Piero Zama, L’arte di Francesco Nonni, “La Piê”, 1967, a. XXXVI, n. 4, pp. 177-186.
«Stranamente però Nonni, ed è questa la sua potenza di recupero, nonostante i disagi ed i pericoli continui della prigionia, trova proprio a Cellelager una nuova spinta ed una nuova dimensione della sua arte. Dalla prigionia egli torna infatti, alla fine della guera, con una eccezionale cartella di disegni a bianco e nero di insospettabile efficacia espressiva: una nuova, imprevedibile visione gli si è aperta in quegli anni disagiati. […]
E’ certamente questo il momento nel quale Nonni, indotto forse dall’angosciante condizione umana sente la necessità di esprimere per sé, così come per gli altri, per coloro che fossero sopravvissuti, ma soprattutto per coloro che non vi avevano partecipato, l’esperienza amara, dolorosa, spaventosa della prigionia. E’ questo il momento in cui, nella ricerca del mezzo espressivo più vivamente capace di rivelare la sua condizione e quella dei compagni di sofferenza, egli riesuma nel suo privato bagaglio culturale i suggerimenti, i modi dell’espressionismo tedesco. Da Münch a Käte Lollwitz e persino ad un certo momento di Vallotton. Il segno abbandona le finezze che caratterizzavano i disegni e le incisioni precedenti del Nonni […].
Per dar corso all’empito della sua protesta, della sua rivolta, certamente individualistica, della sua denuncia, Nonni incontra finalmente una rivoluzionaria arte europea: quell’arte che fino alla vigilia della grande guerra veniva accolta – dal Nonni, così come dalla cultura italiana in genere – come una degenerazione del gusto, niente più che una degradazione delle forme, niente affatto rivoluzionaria, dettata da un gruppo di artisti anarcoidi o populisti, negatori del bello artistico. Nonni inconsciamente assume i modi espressivi dell’espressionismo, per comunicarci la crudezza della realtà. Ha dovuto scoprire tutto ciò sulla sua pelle.
I modelli pre-rinascimentali, o rinascimentali, ovviamente, per questo suo discorso, non gli servivano più. Perchè non ad altro che ad un puro decorativismo, ad un estetismo edonistico avrebbero soltanto consentito di approdare. Mentre egli aveva bisogno di un potente linguaggio, per espirmere la sua protesta, la sua sofferenza. Un linguaggio epico, ma nel contesto incidente, crudo, aspro e perciò diretto per forza di cerità e quindi persuasivo. Nonni torvò così, spontaneamente, il suo inserimento nella moderna cultura europea, nel momento in cui coincise la sua condizione di uomo con la sua qualità di artista e pose anzi la sua condizione umana come paradigma di una condizione che era per divenire universale. L’artista trova finalmente coscienza che in lui vi è una dimensione umana, e la sua arte si trasforma, da un mero gioco edonistico a mezzo di potente espressione della realtà
Marcello Azzolini, Nonni, Edizioni Alfa, Bologna, 1971, pp. 20-23.
«Nel ciclo di “Cellelager”, suggerito certamente anche dall’angosciante condizione nella quale si era venuto a trovare durante la prigionia, egli ha risposto alla necessità di esprimere, con mezzi stimolanti, fino all’efficacia formale più incidente, per sé e per i sopravvissuti e per quelli che quella vita quotidiana non conobbero, la dolorosa esperienza della prigionia di guerra. Il ciclo fu pubblicato agli inizi del 1920.
In esso il segno aveva già abbandonata le finezze che caratterizzavano i disegni e le incisioni precedenti. La forma ha acquistato una plasticità più in sintono con la realtà. Si era fatta cioè descrittivamente ed espressivamente più pertinente ai temi di drammatica esistenzialità che la realtà proponeva. Anche l’introduzione di un certo modo di chiaroscurare aggiungeva un importantissimo elemento pittorico ai puri schemi, peraltro elegantissimi, dei segni eleganti. La scoperta della realtà come motivazione stessa del fare arte gli modificava necessariamente anche i mezzi espressivi, che dovevano essere, se non sempre drammatici, comunque non evasivi».
Marcello Azzolini, Il tempo di Francesco Nonni, La Piê”, 1973, a. XLVII n. 6, pag. 254