Pittura di nature morte del XVII e XVIII secolo

PITTURA DI NATURE MORTE DEL XVII E XVIII SECOLO
Nelle collezioni della Pinacoteca Comunale di Faenza

dal 10 giugno al 18 novembre 2006

 

La maggior parte dei pittori di questo genere sono presenti in Pinacoteca grazie alla generosità di alcuni collezionisti che raccolsero, pioneristicamente, questi quadri.

Il genere della natura morta raggiunge l’apice nel Seicento e nel Settecento, conoscendo interessanti sviluppi proprio in Emilia Romagna dove, grazie ad alcuni autori rivalutati solo negli ultimi decenni, si verificano alcuni intriganti episodi di originalità espressiva.

La maggior parte dei pittori di questo genere sono presenti in Pinacoteca grazie alla generosità di alcuni collezionisti che raccolsero, pioneristicamente, questi quadri: parliamo di Michele Bosi, Giacomo Pozzi e Luigi Zauli Naldi. Fidandosi del proprio gusto e superando la scarsa considerazione che la critica accademica concedeva alla natura morta, radunarono le opere ora esposte (talvolta a costo di notevoli sacrifici finanziari). Successivamente, dando prova di grande generosità e amore per la propria città, donarono alla Pinacoteca dei veri e propri musei privati in cui le nature morte spiccavano per rarità e fascino.

I due esemplari di Carlo Magini (1720 – 1806) sono uno splendido esempio di natura rustica in posa: entrambi descrivono una tavola di cucina apparecchiata con le vivande di tutti i giorni: i piccoli pani rotondi e dorati, le cipolle, il tegame con le uova e poi oggetti poveri come un fiasco, una zuppiera di terraglia e un’altra, più raffinata, in ceramica a fiorami, il tutto presentato con sommesso realismo, senza retorica o ricercati abbellimenti.
Le composizioni, apparentemente casuali, ma in realtà sapientemente equilibrate, sono illuminate dalla luce che sa cogliere un riflesso sui vetri e sul candeliere, creando ombre che fanno risaltare le pieghe del tovagliolo e delle tovaglie con le pieghe di una consistenza quasi fisica.
Accanto due curiose tele di un anonimo, forse allievo di Magini, che ne utilizza il repertorio di oggetti ed alimenti fin quasi al plagio, ma senza ambire alla sua qualità.

Il piacentino Felice Boselli (1650 – 1732) esprime, in tutta la sua alquanto vasta produzione, il senso pieno della natura morta della terra padana, recuperando la lezione di Vincenzo Campi.
Il suo è un repertorio fatto di carni macellate, selvaggina morta, verdure povere entro interni bui, fumosi e percorsi da un’umanità paesana; la materia pittorica corrisponde in pieno a questo repertorio: una veste cromatica ricca, corposa e materica, densa di impasti, ben aderente alle rappresentazioni di una realtà quotidiana indagata fino negli aspetti meno forbiti.

Esemplare la Macelleria: interno di negozio, vera e propria summa della sua produzione: in un ambiente greve e scuro le carni squartate vengono esibite in tutta la loro fisicità e con una evidente sottolineatura ironica.
La Testa di vitello e polli, la Costata di manzo, verdure e selvaggina e l’altro quadro a fianco sono opera di un allievo dell’autore che squaderna il solito repertorio di cibi esibiti sul tavolo rustico.

Altra e più raffinata atmosfera nelle composizioni di due maestri della scuola napoletana del Seicento che aprono il percorso di mostra. Giovanni Battista Ruoppolo (1629 – 1693) e Giuseppe Recco (1634 – 1695), anch’essi giunti in Pinacoteca, come Boselli, con il lascito Zauli Naldi.
La Natura morta con ortaggi, frutta, pani e trancio di tonno del primo, datata 1661, è un esempio della produzione giovanile dell’autore prima della svolta barocca.
La Natura morta con pesci e ostriche di Giuseppe Recco, altro esponente di spicco dell’ambiente artistico partenopeo, nutrito di cultura olandese, ci offre la misura del suo neocaravaggismo di fondo, estraneo ai fasti barocchi e capace di trasfigurare in splendida pittura una realtà umile e silente.

Dal lascito Bosi proviene Il cane e sporta, capolavoro riconosciuto di Arcangelo Resani (1670 – 1740) presente a numerosissime mostre a partire da quella, fondamentale, del 1964-65.
L’essenzialità della composizione è tutt’uno con la luce che marca e rivela la sporta e la figura, che si direbbe umana, del cane, indagata con una raffinatezza di materia cromatica degna di un grande pittore; altri tre piccoli dipinti con volatili confermano l’alto livello formale. Curiosa è l’opera che segue, di un anonimo che utilizza il repertorio di Resani, senza ambire alla sua qualità.

Già attribuito a Francesco Guardi (1712 – 1793), ma in realtà di un anonimo del suo ambito è la tela, giunta con il lascito Giacomo Pozzi nel 1936, raffigurante Fiori, uva e due uccelli. Colpiscono, qui, l’esuberanza pittorica ed il vivace luminismo della composizione; stando a recenti ipotesi, questa opera e le molte altre affini, tutte di area veneta, hanno forti tangenze con l’opera di Elisabetta Marchioni, attiva a Rovigo a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo.

Della stessa area geografica e culturale sono le tre tele qui raggruppate per la prima volta dopo molti decenni: già attribuiti ad un anonimo nordico hanno recentemente ricevuto una attribuzione di Federico Zeri che li assegna a Carlo Testi, operante a Verona nel 1730, finora sconosciuto alla letteratura critica.

Completano la rassegna una composizione di anonimo lombardo del XVIII secolo, sicuramente un epigono dei maestri bergamaschi al cui repertorio di oggetti si ispira sia pure con un tono minore, l’ Interno di cucina già assegnato a Carlo Antonio Crespi, ma più probabilmente di Gian Domenico Valentini (1639 – 1715) e la Testa di cervo che sempre Federico Zeri attribuì a Carl Ruthart (1630  – 1703).

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