[su_heading size=”18″ margin=”15″]I FIORI DELL’ANIMA
Il linguaggio dei fiori nei paramenti sacri dei domenicani
8 maggio – 27 giugno 2010[/su_heading]
LA MAIOLICA A DECORO FLOREALE
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- Introduzione
- I paramenti sacri di San Domenico
- La pittura floreale a Faenza tra Sette e Ottocento
- La maiolica a decoro floreale
- Ludovico Caldesi botanico faentino
- Lessico floreale e dei paramenti
- I domenicani a Faenza
- Opere in mostra
- Foto della mostra
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Durante tutto il Settecento si assistette, in ceramica, al dilagare della decorazione floreale che invase progressivamente le porcellane e le maioliche delle più importanti manifatture europee.
La prima parte del secolo vide ovunque il trionfo delle cineserie, nome sotto il quale vanno registrate tutti i motivi ispirati alla porcellana dell’Estremo Oriente: giardini esotici con ponticelli e pagode fiancheggiati da salici e palme, bambù, peonie, crisantemi, loti, peschi e ciliegi in fiore, ispirati ai motivi di tipo “bianco-e-blu” dell’ epoca Ming, oppure a quelli della “famiglia verde” e alle porcellane giapponesi Imari e Kakiemon dalla ricca policromia.
Verso la metà del secolo, però, a questi decori floreali – che erano detti anche “indiani” perché importati in Occidente dalla Compagnia delle Indie – ed erano per lo più dipinti in forme stilizzate perché intendevano rappresentare concetti astratti come l’amicizia, la purezza, la longevità o la bellezza, si sostituiscono i fiori europei di tipo naturalistico. La prima manifattura ad adottarli fu probabilmente Vienna, che già fra il 1730 e il 1740 iniziò a produrre sontuosi servizi da tavola in porcellana dura decorati, come il famoso servizio Thurn und Taxis, con ricchi mazzi di fiori riprodotti in maniera estremamente accurata.
In seguito, a moda dilagò a tal punto – da Vincennes-Sèvres a Meissen, a Vienna, a Frankenthal, a Niderviller, a Chelsea, a Worcester, a Derby, a Capodimonte, a Doccia e via via in tutte le fabbriche di porcellana– che in tutte le manifatture più importanti furono allestiti reparti dedicati unicamente alla pittura di fiori naturalistici e botanici.
Il fiore più rappresentato – prima solo in porcellana e, dal 1745, anche su maiolica – era certo la rosa per la quale si impiegava la “porpora di Cassius”, il cloruro stannato d’oro di recente invenzione che permetteva finalmente, dopo secoli di tentativi infruttuosi, di ottenere tutte le sfumature del rosa, con la sola precauzione di una cottura a bassa temperatura, condotta entro la protezione della muffola.
Pur nelle differenze di indirizzo stilistico, il fenomeno fu assolutamente generalizzato in tutta Europa, anche se si potrebbe individuare una maggiore propensione delle fabbriche meridionali per il pittoricismo a mano libera. La zona nord e centroeuropea appare invece caratterizzata da un più stretto rigore botanico, ben rappresentato dagli Holzschnittblumen, i fiori xilografati di Meissen, che trionfò nel monumentale servizio Flora danica dalla Royal Copenhagen (1790-1803), composto da quasi duemila pezzi minuziosamente decorati con altrettante riproduzioni tratte dalla monumentale opera di Georg Christian Oeder.
Anche l’Italia non si sottrasse a questa nuova moda, che coinvolse tutte le fabbriche di maiolica e di porcellana, da Torino al regno di Napoli, passando per la Lombardia, l’Emilia, la Romagna, il Veneto, la Toscana, il Lazio e le Marche. Ovunque, anche qui, trionfò la rosa, diventando spesso – come nel caso della rosa ‘sabauda’ di Vinovo, della rosa ‘di Pesaro’ di Casali e Callegari o della rosa ascolana dei Paci – una riconoscibile griffe o addirittura l’emblema della produzione locale.
Anche alla Ferniani di Faenza, nel Settecento, i motivi floreali costituirono il repertorio decorativo prevalente, sia sotto forma di “cineserie”, (il “garofano delle Indie”, il “fiore di loto”, “la pagoda”, “il giardinetto”) ispirate agli esemplari di porcellana orientale acquistati appositamente dal conte Annibale. II perché fornissero nuovi spunti alla produzione, sia nella versione naturalistica (“il fiorazzo”, “il fiore di patata”, i “fiori di vari colori” e i “mazzi di fiori”).
L’introduzione del “terzo fuoco” (la cottura a bassa temperatura riservata al rosso porpora, al verde smeraldo e all’oro zecchino) portò alla Ferniani nell’ultimo quarto del secolo i decori “alla rosa”, “alla mezza rosa”, “a roselline”, in cui si distinsero alcuni eccellenti decoratori come Luigi Benini e Pietro Piani, che era stato allievo di Filippo Comerio. La stessa accuratezza, massimamente rispettosa della morfologia botanica, contraddistinse anche altri due fortunati motivi vegetali di fine secolo, la “foglia di vite” dai colori autunnali, la splendida “ghianda”, generalmente associata a raffinati festoni, ricami, fili di perle e i raffinati bouquets di fiori dai toni sfumati che, nell’Ottocento neoclassico, si accompagnarono alle nuove anfore dalle anse squadrate.
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