L’Andata al Calvario

L’ANDATA AL CALVARIO

 

PRESENTAZIONE  •  OPEREGALLERIA

L’interesse per la Passione di Cristo, comprendendo lo specifico momento della Salita al Calvario, data dal XII secolo e dall’esperienza francescana. A fine Quattrocento e inizio Cinquecento, per molteplici motivi, il tema ha trovato grande diffusione nell’ambito devozionale privato. In un generale mutamento del rapporto tra spiritualità e immagini, anche la pratica devozionale si è orientata verso una marcata soggettivizzazione che, grazie alle riflessioni sul libero esame e sulla centralità della coscienza individuale, ha portato ad un rapporto più soggettivo con Cristo.

E’ il singolo individuo che è chiamato a confrontarsi con Cristo e da ciò è favorito lo sviluppo di un tema iconografico come quello della Andata al Calvario.

[su_tooltip size=”1″ style=”dark” position=”north” title=”Leonardo da Vinci” content=”Studio per la testa di Cristo,
(matita, cm. 34 x 24).Gallerie dell’Accademia, Venezia.”]

Studio per la testa di Cristo, Leonardo da Vinci
Prototipi di questa immagine possono essere ritenuti un disegno di Leonardo, conservato a Venezia nelle Gallerie dell’Accademia, e una xilografia ritenuta di ambito lombardo. Altre ipotesi fanno derivare questa immagine dalla tradizione fiamminga, dove peraltro si era affermata la pittura di un dittico con Madre Dolorosa e Cristo Dolente, con una possibile mediazione di Antonello da Messina durante la sua permanenza a Venezia.
Nelle pitture, l’opera più vicina alla versione xilografica, a cui in ogni caso sembrano maggiormente riferirsi le immagini diffuse in Romagna, è ritenuta una tavola di Marco D’Oggiono, conservata al Getty Museum di Los Angeles, databile negli anni intorno al 1500.

Il soggetto dell’ Andata al Calvario si diffonde tra Venezia, Milano e Ferrara proprio a partire dai primi anni del Cinquecento ed è lunghissimo l’elenco di artisti che lo elaborano. D’ambito lombardo ricordiamo Andrea Solario e Bernardino Luini. Emiliano di nascita ma attivo nelle corti ferraresi e mantovane è Gian Battista de’ Maineri, di cui sono noto sei opere con il Cristo portacroce. Tra i veneti a dipingere questo soggetto sono Giovanni Bellini, Giorgione, Tiziano, Bartolomeo Montagna e Girolamo da Vicenza. Altri pittori che hanno lasciato opere legate al tema sono Lorenzo Lotto, Sodoma, Romanino, Sebastiano del Piombo.

E’ in Romagna che l’iconografia dell’ Andata al Calvario sembra avere la massima fortuna. Note sono le opere degli Zaganelli e Girolamo Marchesi in proposito, ma è Marco Palmezzano l’autore che del tema elabora e diffonde una propria invenzione in molteplici copie. Grazie agli studi di Angelo Mazza sono note infatti più di trenta esemplari dell’artista forlivese o della sua bottega. Nella formulazione più complessa della scena, accanto al Cristo e al manigoldo, vi sono due personaggi tradizionalmente identificati con Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo. Così è nella tavola della Pinacoteca Comunale di Forlì, datata 1535, e in quella dell’Accademia Tadini di Lovere. La prima opera nota del Palmezzano su questo tema è del 1503. Successivi esemplari hanno molteplici varianti passando dal solo Cristo portacroce al Cristo portacroce tenuto dallo sgherro per la corda fino alle realtà più complesse e narrative con l’aggiunta di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo poste su fondo scuro o su luminose vedute di paese.

La tavola faentina è composta con la presenze delle tre figure, oltre al Cristo portacroce su fondo scuro come la tavola del 1525 del Museo Correr a Venezia ma, con una soluzione unica, l’andamento è ribaltato: Cristo è a sinistra mentre a destra sono gli altri tre personaggi nella scena.

E’ possibile, come ha sostenuto Michele Andrea Pistocchi nella giornata di studi di Lovere, che l’opera faentina sia «in parte autografa del maestro (soprattutto nella figura del Cristo) ed in parte, invece, di bottega (per via delle sproporzioni del manigoldo)». Lo stesso Pistocchi in quella occasione ha esaminato un’ incisione ad acquaforte di Francesco Petroncini, realizzata negli anni intorno al 1840, come copia fedele del dipinto faentino.

Il Cristo portacroce, già attribuito a Sigismondo Foschi da Gaetano Giordani nel 1835, è opera che riprende la sola rappresentazione del volto di Cristo rivolto verso il fedele. Come ha notato Anna Tambini vi si trovano in questa opera «alcuni stilemi tipici del faentino come le forti ombreggiature luministichem alle quali è affidata l’introspezione psicologica e l’intensa espressività dello sguardo. Sono esiti ben diversi dai modelli di Palmezzzano, degli Zaganelli, di Girolamo Marchesi di Cotignola, largamente circolanti in Romagna, i quali enfatizzano la dimensione dolorosa e il forte patetismo dell’immagine, deformandone il volto rigato da lacrime e da striature di sangue e perseguono l’effetto drammatico con l’inserto di scherri brutali o con l’evidenza della grossa fune stretta al collo di Cristo come un cappio». Nell’opera di Sigismondo Foschi, conclude Anna Tambini, «basta lo sguardo di Cristo rivolto con espressione mite e rassegnata verso il fedele, a farci entrare in empatia con la sua passione, con un risultato prossimo al Cristo portacroce di Fra Bartolomeo nel Museo di San Marco del 1514».

 

Più di cinquanta anni dopo alle opere di Marco Palmezzano e Sigismondo Foschi, Giovanni Battista Bertucci il giovane dipinge nuovamente un Cristo portacroce o, meglio, un Cristo caduto sotto la croce che per le sue dimensioni ricorda molto la composizione del Palmezzano ma riprende anche un momento della Via Crucis e un affresco che il nonno Giovanni Battista Bertucci il Vecchio aveva eseguito all’inizio del secolo e che era ancora visibile nella facciata della chiesa di San Sebastino (ora in Pinacoteca nella sala del Vestibolo, ultima sala del percorso di visita).

 

E’ trascorso quasi un secolo tra le opere dei due Bertucci e se la rapprese ntazione assume in entrambe le stesse caratteristiche ben diversi sono stile e tecnica pittorica. Nell’opera del nonno sono evidenti i richiami alla pittura di fine quattrocento, e in questo precede la stessa lezioni del Palmezzano, mentre per il nipote i richiami al “vero” e al realismo che consentano una immediata leggibilità e facilità di identificazione rientrano completano nelle indicazioni della Chiesa post-tridentina della seconda metà del Cinquecento. Come ha scritto Anna Colombi Ferretti, in Giovanni Battista Bertucci il Giovane «tutto esprime una volontà di assoluta leggibilitò: volumetrica, compositiva, ambientale e – vien da pensare – di significati teologici».

Quasi un secolo dopo al Cristo portacroce di Palmezzano un altro pittore faentino, Ferraù Fenzoni, dipinge con il Cristo condotto al Calvario un’opera che nella composizione non è priva di richiami. Oltre al Cristo vi sono infatti tre figure, diventate in questo caso uno sgherro e due soldati romani come indicato per la Via Crucis e tutti quanti sono ripresi di profilo e a mezzo busto con uno sviluppo orizzontale fortemente narrativo. Lo sfondo nero di Palmezzano è diventato in Ferraù Fenzoni una scena crepuscolare dove la luce e le ombre sono funzionali all’intento di racconto dell’episodio. La tela di Ferraù Fenzoni raggiunge comunque effetti di forte dinamismo compositivo e di accentuato espressionismo che testimoniano quanto all’artista faentino non siano stati estranei né gli ambienti romani al tempo di Caravaggio né la scuola bolognese di Ludovico Carracci.

L’opera di Ferraù Fenzoni fa parte della sua produzione più tarda, databile fra il 1622 e il 1630. Secondo Giulio Scavizzi «la composizione ha ancora la serrata compattezza delle opere del periodo migliore del Fenzoni, ma altri elementi (durezza dei panneggi e della resa anatomica, colore spento) rendono il quadro un tipico prodotto degli suoi anni più tardi».

Nello stesso periodo del Cristo condotto al Calvario, Ferraù Fenzoni dipinge anche un Cristo portacroce già nel convento dei gesuiti e attualmente andato disperso. E’ possibile supporre che quest’ultima opera non fosse dissimile dalla precedente, a ulteriore dimostrazione della persistenza di temi e soggetti per tutto il Cinquecento e i primi decenni del Seicento. Una persistenza che però non ha impedito l’inserimento nelle opere di nuovi elementi quali le rese cromatiche e l’attenzione al vero, dando sempre nuovi stimoli al rapporto tra committenza e produzione artistica.

 

Bibliografia

– A. Colombi Ferretti, Dipinti d’altare in età di controriforma in Romagna 1560-1650, Bologna, Edizioni Alfa, 1982, pp. 10-13
– G. Viroli, Pittura del Cinquecento a Forlì, 2 voll., Bologna, 1991,scheda 59, pp. 52 e 132.
– S. Tumidei, Marco Palmezzano (1459-1539). Pittura e prospettiva nelle Romagne, in Marco Palmezzano: il Rinascimento nelle Romagne, catalogo della mostra tenuta a Forlì nei Musei San Domenico a cura di A. Paolucci, L. Prati, S. Tumidei, Milano 2005, pp. 27-70.
– G. Scavizzi, N. Schwed, Ferraù Fenzoni, Ediart, Todi, 2006, pag. 181.
– M. Lucco, G.C.F. Villa (a cura di), Giovanni Bellini, catalogo della mostra tenuta a Roma nelle Scuderie del Quirinale nel 2008-2009, Milano, Silvana editoriale, schede di catalogo 55-57, pp. 304-309.
– E.M. Dal Pozzolo, L. Puppi (a cura di), Giorgione, catalogo della mostra tenuta a Castelfranco Veneto nel 2009-2010, Milano, Skira, 2009, schede di catalogo 91 e 92, pp. 470-471.
– V. Gheroldi (a cura di), L’Andata al Calvario di Marco Palmezzano. Restauri, ricerche, interpretazioni, atti della giornata di studi (Lovere, Accademia Tadini, 29 settembre 2012), Lovere, 2014. Contiene gli studi di Angelo Mazza e Pistocchi
– A. Tambini, Sigismondo Foschi, in A. Colombi Ferretti, C. Pedrini, A. Tambini, Il Cinquecento. Parte prima, Storia delle arti figurative a Faenza, Volume quinto, Faenza, Edit Faenza, 2015, pp. 171-197.